Non è un paese per genderqueer

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Nathan
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Non è un paese per genderqueer

Messaggio da Nathan »

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Quarto anno di università per Ale, in una grande città del Nord, nessun amico.
Allo studentato dove risiedeva erano stati divisi in maschi e femmine, e si sentiva estraneo rispetto ai discorsi delle compagne di corridoio. Depilazioni, epilazioni, ricostruzione delle unghie col gel, tacchi 9, 10 e 12, e trucco tatuato semipermanente.
Anche all’università l’ambiente non era tanto diverso. Si aggiungeva una malcelata presunta superiorità da parte degli studenti indigeni, provenienti da ricche famiglie di città, figli d’arte, cresciuti a pane, Gucci e L0uis Vitton.

Non tornava a casa da molto tempo, preferiva percorrere infinite vie deserte, senza lo guardo dei passanti, in un’anonima città grigia, piuttosto che fare il protagonista di sgradevoli cene con copioni già scritti a casa di zie meridionali invadenti e ingombranti.
Qualcuno, i suoi cugini invidiosi, sposatisi a vent’anni, diceva che Ale, al nord, si nascondesse. Quello che non sapevano è che Ale lì aveva potuto essere chi realmente era, ed era nella sua provinciale cittadina meridionale che doveva nascondersi.
Ale non aveva voglia di recitare, di dare spiegazioni, di riceve domande stupide e binarie come “Quando ti sposi?“, “Hai trovato un fidanzato?“, “Come mai hai tagliato i capelli? Non preoccuparti…così sei ancora più femminile, tranquilla, cara!“.

Ale a Milano i capelli se li tagliava da solo. Era bastato un piccolo investimento al negozio CapelloPoint: un paio di forbici e un pettine scuola, e una clipper tagliacapelli con varie regolazioni. Bastava separare la parte corta, sotto e dietro, da quella appena lunga, di sopra, e, col supporto di un gioco di specchi che permetteva di vedere dietro e sui lati, finalmente quintali di riccioli invidiati da zie e cugine zitelle avevano lasciato il posto ad un’acconciatura più adeguata.

Ale spariva sui vagoni delle metropolitane che percorreva su e giù per muoversi in città. Bastava un fasciacollo tenuto su alto e un occhio coperto interamente da un ciuffo emo ad allontanare lo sguardo delle e dei curiosi. Lo sguardo era proteso verso chi era più bizzarro e appariscente: i glamster di periferia, barboni, mendicanti, obese, e travestiti.
Ale guardava con impassibile rassegnazione la trans che le sedeva di fronte in metro: alta, ossuta, tacco sedici, capelli biondissimi, forse una parrucca, cerone spesso e pesante che copriva un residuo di alone di barba. Provava grande simpatia per quella ragazza, che, diversamente da lui, non era invisibile. Tutti guardavano perplessi e sgomenti quella ragazza infondo così binariamente conforme alle aspettative che la società ha verso le donne.
Quanta poca distanza c’era tra quella trans ed Ale. Sentiva questa vicinanza, non la comprendeva, ma la cosa che generava più sorpresa in lui era il vedere che lei attraeva l’attenzione e gli sguardi di tutti, mentre la sua diversità veniva ignorata, tollerata.
Ci fu un fugacissimo sguardo tra lui e quella trans. Entrambi avevano compreso perché si erano guardati con comprensione ed empatia, ma nessuno dei due fu capace di esprimerlo a parole, e di raccontarlo anche solo a se stesso.

Ale non aveva mai amato le regole non scritte della vestizione rituale femminile. Ci aveva camminato sui tacchi, una volta, alla laurea triennale. Li aveva dovuti togliere dopo poche decine di minuti, per continuare in tennis. Trucchi e profumi gli davano allergia alla pelle, ma forse, infondo, l’allergia si legava ad altro.
Allo studentato aveva trovato un annuncio: un tale, Nicola, si proponeva come maestro privato di chitarra elettrica. Scoprì che Nicola era a poche camere di distanza da lui, giusto aldilà del corridoio che, svoltanto, portava all’altra metà del cielo: l’ala dei maschi.
Si erano scambiati solo sms, ed è per questo che Nicola si sorprese nel vedere chi gli stava chiedendo lezioni. La stanza era disordinata, vi erano calzini e mutande dappertutto, e anche un mozzicone di canna o sigaretta. Vi era un grosso amplificatore portato su a sgamo e nascosto malamente da una bandiera della pace, pedali e pedaliere dappertutto, una vecchia Stratocaster e il Dante Agostini, la bibbia del solfeggio ritmico. Ai muri, poster di gruppi ed autori che salivano sul palco quando Nicola ed Ale non erano ancora nati. Nicola tolse gli occhiali da sole in stile Doors, tirò indietro i folti capelli mossi in stile Jim Morrison, e indicò ad Ale un traballante sgabello dietro ad un altrettanto traballante leggìo con alcuni spartiti per principianti.

Nicola era molto soddisfatto dei progressi che Ale faceva, maggiormente determinato rispetto ad altri alunni per cui una chitarra elettrica e uno spartito hard rock sarebbero stati maggiormente scontati. E così Ale aveva atteso intrepido il vaglia postale mandato da casa, quello che la mamma gli mandava affinchè “la sua piccola” potesse fiorire nella sua femminilità con accessori alla moda, senza sfigurare davanti alle raffinate colleghe del Nord, montate e figlie di papà .
Teneva in mano i contanti prelevati poco prima dal BancoPosta quando si recò al negozio di strumenti musicali, consigliato da Nicola.
“Signorina, desidera qualcosa? un microfono?”
“No, una chitarra elettrica?”
“Deve fare un regalo al suo ragazzo?”
“No, ma… è per un ragazzo…” Disse Ale timidamente, prima che il commesso si mettesse a mostrargli la Stratocaster di Hello Kitty o i simpatici modelli in rosa da parrocchia.

Dopo che ebbe un suo strumento, Ale iniziò a fare progressi rapidi. Era intraprendente, e presto mise un annuncio per un gruppo PunkRock. Si trattava di ragazzi di periferia, lavativi che avevano interrotto gli studi per cattiva condotta, anarchici ed idealisti, e anche un po’ puzzoni, ma erano rimasti piacevolmente colpiti dalla candidatura di Ale, sia perché inattesa, sia perchè era andato lì col sorriso, nonostante avesse dovuto percorrere chilometri a piedi, cambiando tre autobus, con un amplificatore portatile e una chitarra con custodia rigida.
Quel gruppo di disadattati, esclusi da famiglie e comitive per la loro stranezza, era diventato una famiglia per Ale. Loro erano diversi dalle borghesi colleghe con la puzza sotto al naso dell’università.
Ale era un nerd e uno smanettone, e bastò registrare un demo per farlo finire sul bancone di qualsiasi locale che facesse musica dal vivo.
Ben presto un locale specializzato in musica alternativa prese in considerazione la loro candidatura. I Rimozione Forzata sarebbero andati in scena.
Erano le ultime prove prima del concerto. Tra i ragazzi c’era molta tensione e si decideva la scaletta della serata, ogni singola frase, gesto, e si finì per parlare della presenza scenica.
“I capelli, però, scioglili”, gli aveva detto, con disinvoltura, lo sdentato batterista Ettore.
Ale non credeva che quella frase gli avrebbe potuto fare così male.
Si era sentito accettato fino a quel momento: perché poi quella frase del cazzo? Ale portava i capelli, di media lunghezza, legati in alto per mostrare la parte rasata e laterale sotto. Perché avrebbe dovuto scioglierli? In quanto materiale femminile del gruppo? Mercanzia da mostrare ed ostentare? Per salvarsi dal rischio che pensassero che fosse un ragazzo, come gli altri? Ma soprattutto…era per quello che avevano scelto lui e non gli altri?
Ettore era stato chiaramente un coglione, ma neanche lo sapeva. Lui aveva la sua bella cresta decolorata, e gli altri avevano i capelli lunghi raccolti in folti codini e nessuna intenzione di sciogliere i capelli per vederli fluttuare tra le corde del basso o della chitarra, o tra i tasti delle tastiere.
Ale non voleva assecondare le richieste sessiste del suo batterista, ma voleva comunque che il suo primo concerto fosse memorabile. Non voleva apparire come una sexy bambolona dark, ma voleva comunque avere presenza scenica in modo non dissimile rispetto ai suoi amici animali (da palco).

Fu in quel momento che gli venne in mente del parrucchiere per uomo che ogni giorno, per quattro anni, aveva visto passando per andare all’università. Era stato un barbiere per molto tempo, ma ora il vecchio proprietario aveva preso un ragazzo ad aiutarlo, formato come parrucchiere per donna, e all’insegna scolorita “Barbiere“, si era aggiunto un posticcio tassellino di cartone, con una maldestra scritta “e da donna“.
Il barbiere, in questi anni, aveva spesso visto Ale passare. Era siciliano, attaccava bottone con chi gli stesse simpatico a pelle, e, quando Ale passava, diceva sempre “perché non vieni qui a farteli tagliare da me?”
Ale ne era lusingato, ma era soddisfatto di essere barbiere di se stesso, fin quando non ebbe voglia di fare un ciuffo viola, o blu, come quello del suo invidiatissimo ed androgino bassista emo.
Era la prima volta che, passando per quella vetrina, vedeva la decalcomania sul vetro che indicava che venivano fatte anche colorazioni. Doveva essere proprio destino. Chissà quando sarebbe stato sopreso il suo “amico” barbiere nel vederlo varcare quella soglia.
Si immaginava già dentro con un giornale a parlare di calcio e formula uno, in attesa mentre vedeva fare le barbe gli anziani signori, e le creste colorate agli studentelli del primo anno, anche loro, come lui, liberi dagli sguardi censori dei genitori,a cercare un po’ di libertà ed emancipazione.

Tanta fu la delusione quando, entrando, il barbiere non corse ad accoglierlo, ma fece un cenno al nuovo garzone, che non sapeva essere il nuovo addetto al pubblico femminile.
Il ragazzo era quello che gli sboccati punk del suo gruppo avrebbero chiamato una cula persa.
“Come ti chiami?”
“Ale”
“Alessandra o Alessia?”
“Sono Ale?”
“Devi fare la piega? Sistemare il taglio?”
“No, vorrei una ciocca blu, o viola, qui nel ciuffo, come quella del mio bassista”
Il ragazzo lo guardava perplesso e con la mano al mento: “Direi sicuramente viola, hai una foto di come li vorresti?”
“Si, certo” disse Ale prendendo il mano lo smartphone. Vi era la foto di Raffa, il bassista emo.
Il giovane parrucchiere fece uno sguardo schifato, e prese il suo di tablet, mostrando raffinate signore borghesi con tinte mesciate, lo shatoush, il degradè, il balayage e non so quale altra sciccherìa.
“Io però vorrei proprio i capelli come lui, – disse Ale facendosi coraggio – come il mio bassista”.
“Cara, vedo cosa posso fare, tu siediti e fidati di me“.

Mentre Ale veniva impiastricciato con puzzolente decolorante, una signora burbera, con in testa una classica tintura, borbottava col parrucchiere:
“Tu non mi fai mai i colori che voglio! tu pensi che io sia ignorante!”
Il parrucchiere annuiva imbarazzato dall’ingombrante signora peperina
“E comunque te lo meriti di essere maltrattato da noi donne! Si sa, noi donne quando vogliamo cambiare look è perché siamo insoddisfatte della nostra vita, e quindi ci sfoghiamo con te!”
E poi, girandosi verso Ale
“Signora, lei conferma? Che noi donne siamo cosi? Che siamo terribili?”
Ale abbassava lo sguardo. Il parrucchiere andò nel retrobottega a prendere un tubetto mogano per la vecchia.
Lei sussurrò ad Ale “Non fidarti di quello là, fa sempre i tagli e colori che vuole lui! Io sono mesi che gli chiedo di farmeli biondi come la Clerici, ma lui dice che ho la pelle olivastra e me li continua a fare rossi!”
Certo quelle parole non erano incoraggianti, né l’atteggiamento di ostentata disapprovazione che aveva avuto il parrucchiere alla vista dell’outfit richiesto da Ale…ma era tardi, il concerto era a breve, Ale aveva già chili di decolorante in testa.

“E ora una colatina di tinta!” Disse giulivamente la checca pazza impiastricciando Ale con una tinta ancora più puzzolente.
Dopo il risciacquo, il sosia uscito male di Solange fece una piega tutta gonfia e cotonata, ma i capelli non erano nè viola nè blu, nè il colore partiva dalle punte, nè era limitato a poche ciocche, ma soprattutto era di un vezzoso rosa maiale.
“Soddisfatta, caaaaara?”
“Ma non è viola!” disse timidamente Ale, mentre si guardava con impellente desiderio di nascondere quel colore infilando la testa dentro un secchio di fango.
A quel punto il parrucchiere eliminàò dalla sua voce ogni residuo di gentilezza che si rivolge al cliente pagante “Si che è viola“, e aggiunse, con voce risentita,”ma non le conosci le nuance?”
“Ma non è per niente come in foto! – continuò Ale insistendo – Potete rifarmelo del colore che ho scelto?”
“Quel colore non lo abbiamo, non ce lo chiede nessuna” disse stizzito il coiffeur.
Mentre Ale, sentendosi una pecora al macello, pagava il suo “Shampo, Piega, Taglio e Colore – Donna“, con un bel pezzo da cento euro (avere la vulva costa!), il parrucchiere borbottava col titolare barbiere, per giustificarsi sul quadretto a cui aveva appena assistito, dicendo
“Ste provinciali, è venuta qua che sembrava un uomo, l’ho fatta rinascere, e si lamenta pure!”

Ale uscì da li, prendendo vari semafori rossi col suo Scarabeo, per raggiungere in tempo il locale. I commenti dei colleghi musicisti furono pessimi, e dopo il concerto un ubriacone ci provò in modo imbarazzante, tanto da costringere Ale ad essere manesco. Erano bastate pochi tocchi di rosa in un disordinato caschetto per ravvivare i b0llenti spiriti di uno zoticone. Il compenso la mamma e le zie avevano visto le foto, su facebook, del concerto, e si erano entusiasmate per la fioritura della loro adorata rampolla femmina.

Pochi giorni dopo Ale dovette confrontarsi con lo specchio e fare i conti con quel makeover imposto con fare supponente da un effeminato hairstylist che aveva cercato di “correggerlo”. Forbici e pettine non servivano, stavolta, nè il pettinino regolatore della clipper. Il rosa non si era limitato a delle ciocche o alle punte, ma raggiungeva la radice e non schiariva nel tempo, nè era stato possibile coprirlo con colori naturali che invano Ale aveva cercato di buttarci sopra, spendendo gli ultimi soldi del vaglia postale arrivato dal sud. Se avessero fatto come aveva chiesto, colorando le punte, forse Ale avrebbe potuto salvare capre e cavoli in modo diverso.
Non rimaneva che tagliare tutto, striscia dopo striscia, non di certo con piacere, visto che l’ultima cosa che avrebbe voluto è denudarsi a tal punto, ma con un leggero sollievo, vedendo quelle ciocche rosa cadere a terra una dopo l’altra, e quel millimetro di castano spuntare dalla cute dando speranza di una lenta “guarigione” verso un’espressione estetica più consona.

Ale fece gli esami universitari rimanenti. Nessuno disse nulla, all’università nessuno si scompone per una testa rasata, ma poi i mesi passarono, e i capelli tornarono di una lunghezza tale da consentire la tanto agognata, sofferta ma desiderata invisibilità. Ale discusse la tesi quinquennale ed entrò, coi suoi pesanti anfibi neri, mondo del lavoro.
Pensava che quell’esperienza, di “teoria riparativa” parrucchieristica, sarebbe stata solo una parentesi sgradevole, ma che col tempo sarebbe riuscito a comunicare al mondo chi era.
Col tempo andò sempre peggio. Relazioni disastrose con ragazzi etero in cerca di altro, colloqui andati male che ignoravano la sua laurea a pieni voti, lavori mediocri, promozioni non date.
Del resto, ragazzi, non è un paese per genderqueer.

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Roby
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Re: Non è un paese per genderqueer

Messaggio da Roby »

Natahan
grazie di aver condiviso questa storia.
Che dire ? Non c'è molto da commentare se non riflettere su quanti preconcetti e pregiudizi ci siano nella testa delle persone; preconcetti che spesso vengono espressi anche in maniera inconsapevole ma che non per questo fanno meno male.
L'episodio del barbiere / parrucchiere mi ha ricordato quello che succedeva a me (in maniera quasi speculare) quando portavo i capelli lunghi ed andavo in parrucchieri unisex alla ricerca di un taglio che potesse funzionare al femminile ed invariabilmente mi venivano proposti tagli maschili... che delusione !
Spero di leggerti più spesso in queste pagine, un abbraccio !
Susanna
La Roby

Moderatrice di X-Dress

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