E' un sabato mattina di marzo, domani sarà pasqua,
Attendo con mia moglie il treno per Roma, a qualche decina di metri da noi la mia amica Steffi sta telefonando.
Due poliziotti si avvicinano, ci chiedono i documenti.
La prima cosa che mi viene in mente da dirgli, e che gli dico, è che la residenza indicata sul mio documento non è aggiornata, che poi è la stessa cosa che gli avrei detto in circostanze normali.
"Non si preoccupi, non importa" è la risposta.
Le circostanze a dire il vero tanto normali non sono: indosso un giubbottino nero leggero in similpelle, una maglietta rosa scuro abbondantemente scollata, un paio di jeans skinny e i miei inseparabili anfibi neri e, ovviamente, trucco e parrucca bionda.
Non provo inquietudine o apprensione, curiosamente immagino che se uno di loro mi chiedesse perché vado in giro così, ecco, non saprei cosa rispondergli.
Ma i due non fanno una piega, controllano i documenti -il mio e quello di mia moglie- poi ringraziano, ce li restituiscono e procedono oltre.
E così senza quasi neanche accorgermene passo il mio primo controllo da parte delle forze dell'ordine, mentre sono al femminile e attendo il treno per Roma, al binario 5 della stazione di Orte, in questo assolato e ventoso sabato prima di pasqua.
Siamo immersi nella fiumana di persone che da Termini si dirigono verso il colosseo e nessuno fa caso a me, o almeno credo. Poco fa Steffi mi ha detto che potrei assomigliare a una turista del nord Europa, sia per l'altezza che per la capigliatura, e allora ho deciso che per un po' mi rivolgerò a lei parlando inglese, perché trovo divertente giocare a fare la svedese in visita alla capitale. Mi sento bene e a mio agio in mezzo a questa folla cosmopolita e varia, non provo particolari emozioni, ma mi sembra di essere, come dire, al mio posto.
Poco più tardi, con lo sfondo del colosseo, Steffi mi farà alcune foto ed una in particolare mi piacerà: indosso gli occhiali da sole, ho i capelli scompigliati dal vento, sorrido.
E' notte fonda a Bagnaia, piccolo borgo diosaddove che abbiamo raggiunto per cenare in una pizzeria, Steffi è andata a parcheggiare e ci ha detto, a me e a mia moglie, di entrare nel locale e di andare a prendere il tavolo ma io mi sono bloccata, e ho deciso di aspettarla fuori, in un angolo in cima alla discesa che porta all'ingresso.
Fa freddo e tira un vento gelido, indosso un giubbino bianco imbottito, una gonna pantalone grigia abbastanza corta, collant neri e un paio di decoltè basse che ancora mi fanno un po' male in punta. Dalla piazza vicina arrivano gli schiamazzi di alcuni giovani, sui gradini della chiesa in un braciere ardono rami d'ulivo, le lingue di fuoco si agitano e proiettano bagliori sulla porta del tempio, mi stringo nel giubbino, mi sento inquieta, ho paura.
Steffi tarda a tornare ed io mi domando come mi caverei da questa situazione se lei non dovesse arrivare proprio.
Le persone nella piazza mi fanno paura, mi sento sola nonostante mia moglie sia qui con me, anzi proprio perché lei è qui con me mi sento responsabile di quel che potrebbe accadere. Paure irrazionali, senso di vergogna, un accenno di panico, il vento che mi spinge ancora di più nell'angolo, una coppia che passa lancia un'occhiata, trascorre un tempo infinito, poi Steffi arriva, entriamo nel locale e per un po' mi calmo, ma non è stato facile, non è stato bello, avrei voluto essere altrove, e non potevo.
Anche in questo momento vorrei essere altrove, e non posso.
Seduta su una panca della funicolare che ci sta portando a Orvieto, stretta con qualche decina di persone in uno spazio angusto, mi sento scrutata, osservata, forse giudicata se non da tutti, quasi. Una coppia con un bambino seduta davanti a me pare l'unica a non degnarmi di uno sguardo, ma gli altri: basta che giri gli occhi verso di loro per cogliere l'attimo in cui distolgono lo sguardo a loro volta, dandomi la certezza che fosse rivolto verso di me. Provo imbarazzo ma non vergogna, quella no, sento il peso di quegli sguardi, di quelle occhiate, di quella gente di cui in fondo nulla m'importa, persone che adesso sono qui ma che non rivedrò mai più, eppure capaci di farmi star male, e sono io che sto dando loro questo potere: io, solamente io.
Questa sensazione mi seguirà tutto il giorno, e mi abbandonerà solo quando salirò in macchina per tornare a casa.
Il gran finale si gioca a Terni in un centro commerciale, il lunedì di pasquetta.
Sono abituata ai centri commerciali, andrà tutto bene, penso. E sbaglio.
Fin da subito mi rendo conto che qualcosa non va: ancora una volta troppe occhiate, troppi sguardi, ne sto raccogliendo di più adesso che in un mese a Torino e non riesco a capire perché, dal momento che io sono sempre la stessa. Mia moglie conferma: guardano soprattutto me, e in una certa misura anche Steffi, ma meno. Mi viene da ridere, è una reazione che a volte ho quando tutto, ma proprio tutto, si mette male. Da un certo punto in poi è come se mi vedessi da fuori, come se l'imbarazzo dopo aver superato il livello di guardia mi portasse a considerare il tutto come un film di qualcun altro, alla cui proiezione sto assistendo. Non capisco, non mi capacito, vorrei essere altrove e se ci fosse il pulsante "abort" l'avrei già premuto mille volte, ma non c'è.
Resto, ma si vede che sto soffrendo,
Stavo cercando il mio limite, ma ha fatto prima lui a trovare me.
Mi rendo conto di tante cose che non vanno nel modo in cui mi presento, dettagli certo, ma tutti insieme pesano, fanno la differenza. Non è che sia vestita in modo inappropriato, o che il trucco sia sbagliato, è che manco di naturalezza, di disinvoltura, è che sto recitando la parte senza farla veramente mia, in modo stentato, imbarazzato, rigido.
Il punto è che io non sono come loro, come queste donne che vedo intorno indaffarate nelle loro cose, ma nemmeno vorrei esserlo. Non riesco a confondermici, a mimetizzarmi tra di loro perché mi sento da loro diversa, lontana, in un certo senso aliena.
Non sono come loro, nè voglio esserlo.
Per questo mi guardano, mi osservano, forse alcune mi giudicano, altre forse ridono.
Perché sono sopratutto donne, quelle che guardano.
Eccolo qui, il mio limite.
Non posso sembrare una donna come le altre, se non sento di esserlo.
E allora mi dovrò inventare qualcosa, per poter continuare a giocare.
"Perché lo fai", mi chiederà più tardi Steffi.
"Per trovare un senso a una vita" risponderò io, senza pensarci più di tanto.
Ma sono solo parole.
"Questa è vita reale, non un palcoscenico" incalzerà lei.
"Ma la vita reale è una recita anch'essa, solo con attori più convinti, più calati nel ruolo, che spesso neanche si accorgono di recitare" obietterò io.
Ma che ruolo voglio per me su questo palco, ancora non l'ho deciso.
Forse non esiste neanche: me lo dovrò inventare.